1 luglio 2006
Euston manifesto, una lettura
Quando è uscito questo famoso manifesto non l'ho letto. Il fatto che
piacesse a Christian Rocca, un ottimo giornalista di destra, è bastato
a convincermi che non facesse per me.
Ora invece l'ho letto. E mi sono arreso
all'evidenza: è molto peggio di quanto pensassi. Non solo parla di una
sinistra che non è la mia e che secondo me non è neanche sinistra, ma
lo fa in un modo puerile, costruendo quelle che dovrebbero essere le
basi teoriche della nuova sinistra semplicemente sulla contraddizione
con una determinata parte della sinistra attuale. Non c'è nessuna
analisi storica del periodo che stiamo vivendo, nessuna
contestualizzazione (per che sinistra è scritto? Per quella europea?
Per quella americana? Per quella vietnamita? È mai possibile che nel
2006 si pensi che a prescindere dal contesto storico e geografico le
cose da fare siano sempre le stesse?), nessun legame con la società,
con lo sviluppo economico, con il futuro. L'unico accenno alla
tecnologia riguarda i blog, uno strumento dal punto di vista
tecnologico-produttivo assolutamente insignificante (per il semplice
fatto che nessuno ci ha ancora guadagnato un euro).
Non chiedo Marx, mi basterebbe De Rita. Dove sono le forze che agitano
la società? A chi si rivolge questo manifesto? Chi sono quelli che lo
dovrebbero portare avanti? Non pretendo una classe di riferimento, un
soggetto rivoluzionario, mi basta un destinatario qualsiasi. Non c'è.
L'intento è chiaro: giustificare da sinistra la dottrina Bush.
Sostenere che il valore fondante della sinistra è la democrazia, e non
la democrazia in generale, ma la democrazia così com'è codificata nei
paesi anglosassoni (già il sistema socialdemocratico, coi suoi pesi e
contrappesi, la sua attenzione al conflitto sociale e le sue tentazioni
neocorporative sforerebbe i limiti tratteggiati dal manifesto),
significa semplicemente fornire a una determinata parte dell'umanità un
certificato di superiorità, dall'alto del quale le si permette di
governare il mondo.
Ridicolo in questo contesto è l'accenno all'internazionalismo: si
utilizza questa nobile parola per riproporre il concetto di "ingerenza
umanitaria" caro a Clinton. L'internazionalismo cessa quindi di essere
un legame tra i lavoratori di tutto il mondo, opposti agli stessi
nemici, per diventare un legame tra stati, tra governi, che hanno in
comune alcune regole di organizzazione interna e in base a quelle hanno
il diritto di rappresentare l'umanità e di liberare i popoli oppressi.
Non sono più i popoli oppressi a unirsi tra loro per liberarsi dal
dominio, ma è un ristretto club di "democrazie" a rappresentare anche
coloro coi quali non ha alcun legame e a pretendere di liberarlo da se
stesso. Dall'Internazionale a Faccetta nera in pochi semplici passaggi.
Del resto questo utilizzo forzatamente ideologico del concetto di
democrazia è funzionale anche a un altro disegno implicito nel
manifesto: cancellare totalmente dal discorso politico ogni riferimento
alle divisioni della società, alle disuguaglianze tra le classi, a
un'evoluzione (non dico un rovesciamento, dico un'evoluzione) del
modello economico dominante. Se nella socialdemocrazia si attuava un
compromesso, ponendosi l'obiettivo di abbattere le disuguaglianze
lavorando all'interno di un sistema capitalista, qui si nega a priori
che la disuguaglianza sociale sia un problema. Se infatti la democrazia
liberale anglosassone è considerata un assoluto indiscutibile, i
diritti umani certificati dall'ONU sono considerati "universali e
vincolanti per ogni essere umano", se ci si pone come obiettivo
"l’uguaglianza completa di genere", quando si arriva al punto ci si
limita ad auspicare, a lungo termine "una più diffusa uguaglianza
sociale ed economica". Come dire: sul resto non si transige, su questo
sì. Del resto a cosa serve lottare contro le disuguaglianze? Esiste già
il sistema democratico anglosassone, panacea di tutti i mali, modello
pronto a essere replicato ovunque, in grado di rendere tutti liberi, a
prescindere dalla condizione sociale ed economica. E chi non lo
riconosce è un antagonista antiamericano antisemita.
Questo concetto si capisce ancora meglio se si passa alle poche righe
che il manifesto dedica alle disuaglianze globali, la parte più
sconfortante dell'intero testo. Ben lungi dal proporre un modello
alternativo di sviluppo economico, il manifesto anzi rigetta
esplicitamente anche il compromesso socialdemocratico, buttandosi nel
mare aperto del liberismo assoluto temperato da conservatorismo
compassionevole. Si dà per scontata, come i socialdemocratici,
"espansione corrente dei mercati globali e del libero scambio" come
destino storico inevitabile, ma mentre quelli si pongono il problema di
come guidare questo processo e volgerlo verso l'interesse delle classi
che rappresentano, il manifesto, non rappresentando nessuno oltre chi
l'ha scritto, porta come esempio di misura per temperare le
disuguaglianze globali la campagna "Make Poverty History". Insomma, a
salvare il mondo ci penserà Bono. Papalinismo allo stato puro.
Altro ci sarebbe da dire su un manifesto che con la scusa di
distanziarsi dall'antiamericanismo scade nel peggior vittimismo
americocentrico, con la scusa di condannare l'antisemitismo sancisce
l'indiscutibilità dell'ideologia sionista, con la scusa di evidenziare
il doppiopesismo di chi si ricorda i diritti umani solo quando si parla
di Guantanamo, attacca in perfetto stile McCarthy Amnesty International
(su cui dice le stesso cose che dicono Bush e Castro, oltretutto).
Ma per ora può bastare. Mi resta una sola domanda: perché?
| inviato da il 1/7/2006 alle 2:25 | |
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